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Invalsesia Borgosesia

Approfondimento

Pochi minuti di silenzio, lasciando che lo sguardo spazi tra le mura della chiesa e il paesaggio di cui si gode dal panoramico sagrato e già si respira tutta l’affascinante storia di questo santuario: l’arte, la devozione, le guerre, la pestilenza, la cultura popolare.

Il Sacro Monte di Sant’Anna sorge sul colle del monte Rigone (dal latino Origonus, a sua volta da Oro, cioè “pianoro rialzato” un termine appartenente allo strato linguistico padano e molto diffuso in Valsesia). L’area è resa ancora più suggestiva dallo sfondo offerto dal grandioso monte Fenera. La piccola frazione di Borgosesia, già attestata nei documenti nel 1025, ospitava i ruderi di uno dei castelli dei Conti di Biandrate, distrutto tra il 1372 e il 1374. Questo luogo strategico costituiva uno dei punti della cinta fortificata realizzata nel corso del XIII secolo a protezione della Valsesia dalle invasioni esterne, in particolare novaresi, comprendente anche i castelli di Vanzone e Robiallo. Il valore della scelta del luogo, compiuta nel Seicento dai terrieri di Montrigone è, quindi, molto chiaro: al posto del castello diroccato, simbolo dell’oppressione feudale, sarebbe nato un luogo di speranza e riconoscenza a Maria.


Veniamo ora alla nostra chiesa. Il motivo principale dell’erezione del Santuario, tra il 1631 e il 1659, è lo scioglimento del voto fatto alla Vergine che ebbe merito di intercedere in favore dei cittadini graziandoli dalla morte a causa della peste. Il morbo infuriava già da diversi anni in tutta Europa e anche in Valsesia erano giunte le ordinanze milanesi per istituire una speciale Commissione di Sanità con il fine di monitorare la situazione e arginare il pericolo del contagio, presieduta dall’allora sindaco Gianfrancesco Gibellini. Dal 1629 la malattia si manifestò con crudezza e venne subito interpretata come una “punizione divina” per le scelleratezze compiute dalla popolazione. Per questo la chiesa, alle origini, venne intitolata a Santa Maria delle Grazie, a San Rocco, invocato come protettore dalla peste, e a San Marco, protettore dei campi e dei raccolti. Ma il culto verso la madre della Vergine era già molto sviluppato, tanto che verrà poi comunemente denominata chiesa “di sant’Anna”: in un territorio alpino, dove la vita quotidiana femminile era molto dura, questa santa veniva invocata per la protezione delle partorienti – una parte di popolazione tra le più colpite dalla peste – per chiedere un parto felice, figli sani e latte a sufficienza per allevarli. Ancora oggi, la devozione verso la santa è testimoniata dal gran numero di fiocchi dei bimbi nati che vengono appesi sulla grata della prima cappella, la Natività di Maria. Inoltre, almeno dalla data del termine dei lavori, nella chiesa venne sistemata una scuola per i bambini. Questo spiega anche la simbologia dedicatoria: raffigurare nelle cappelle interne le tre generazioni (Anna, Maria e Gesù) significa rappresentare il ciclo della vita, indice del tempo che passa e sempre si rinnova.


Nel 1663 Carlo Francesco Gibellini, divenuto reggente della chiesa, ottenne l’istituzione della cappellanìa, mentre dal 26 luglio del 1701 si giunse all’accordo tra i terrieri e il prevosto per celebrare ogni anno una festa in onore della santa. Il ventennale lavoro di costruzione della chiesa subì varie battute d’arresto: controversie sui terreni usati per la costruzione, carenza cronica di soldi a causa dello stato di guerriglia pressoché continua che indirizzava i soldi della popolazione principalmente in opere di difesa. Nonostante tutto, però, non mancheranno mai l’impegno, le elemosine, il lavoro incessante della povera gente che otterrà speciali dispense vescovili per lavorare nei giorni festivi, con prestazioni gratuite alle quali spesso si affiancarono gli aiuti dei pellegrini di passaggio. Forse un incoraggiamento venne anche dal famoso “miracolo delle rose” così descritto dal canonico Giambattista Gibellini “..la notte del Santissimo Natale dell’anno 1634 un roseto posto in cima al monte ove è detta Chiesa fiorì con quantità di rose, quali furono colte la mattina di Natale e riposte sopra l’altare, e così cominciò a crescere la divotione verso la Beata Vergine”.

Circondato da un paesaggio punteggiato di siepi sempreverdi e abeti odorosi, sin dalla sua concezione progettuale il piccolo santuario fu pensato tenendo presente le soluzioni artistiche modulate al Sacro Monte di Varallo, del quale diventerà idealmente la “porta” di preparazione e accesso anche per la sua collocazione proprio sull’antica via Regia, l’unica strada che dal novarese portava alla Nuova Gerusalemme valsesiana.


Le stazioni della Via Crucis sono tredici tempietti barocchi raffiguranti la Passione di Cristo. Realizzate a partire dal 1663, anno in cui la fabbriceria riuscì ad acquistare i terreni necessari presenti nell’area della collinetta, vennero terminate entro il 1763 e affrescate dal maestro celliese Lorenzo Peracino. Purtroppo, alcuni incauti restauri del 1864 hanno irrimediabilmente compromesso le parti pittoriche, provocandone la perdita quasi totale. La stazione finale, che immette sul sagrato, è rappresentata dalla statua del Cristo deposto (ignoto autore, ca. 1705) collocato nella prima delle tre grotte scavate nella roccia del fianco sinistro del Santuario, dove si trovano anche le statue di Maria Maddalena e Giovanni Battista.


Per la realizzazione delle scene contenute nelle cappelle la fabbriceria incaricò dei lavori il grande maestro alagnese Giovanni D’Enrico, famoso per la sua quarantennale esperienza nel cantiere del Sacro Monte di Varallo, grazie al suo legame di parentela con i Gibellini. A sant’Anna il D’Enrico, ormai ottantenne, verrà coadiuvato dalla bottega di Giacomo Ferro, di Riva Valdobbia, che qui compie la sua opera più matura e conosciuta. Purtroppo, possediamo pochissime notizie sulla distinta attività artistica dei due statuari a causa della perdita dell’archivio della fabbrica avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento. La mano del D’Enrico è però facilmente rintracciabile almeno nelle cappelle della Natività di Maria e della Visitazione, mentre certamente non sue sono le la Presentazione al Tempio e la Morte della Vergine, realizzate dal solo Ferro con i fratelli per l’avvenuto decesso del maestro. Le statue, tutte in terracotta policroma, sono a grandezza naturale, alcune dotate di barbe e capelli veri e riprendono la gestualità della Gerusalemme valsesiana, anche se le cappelle stesse sono concepite in modo più semplice rispetto alla grande teatralità del modello varallese.

All’ingresso, sulla destra, è esposta una piccola urna con la Vergine dormiente, che vuole essere il ricordo di quella conservata nella cripta della Basilica del Sacro Monte di Varallo. Nella finestrella soprastante l’altare appare l’immagine della Beata Panacea, in ricordo di un’altra importante figura femminile per la valle.

Ben poco si conosce sulle tele seicentesche che possiamo ammirare nel coro e nell’abside. Dalla sinistra troviamo una grande tela raffigurante la Circoncisione, segue il Primo sogno di Giuseppe, al centro dell’abside troviamo la Natività di Gesù, si prosegue sulla destra con l’Abbraccio di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea e si conclude con l’Adorazione dei Magi.

Nel Santuario sono ricordati anche tre personaggi. Il primo è Giambattista Dajs, detto Panigà (dal nome di una minestra fatta di pane e latte) ricordato nella facciata della chiesa come promotore e benefattore della costruzione. Nelle cappelle della Natività e Morte di Maria stanno, rispettivamente, i busti di Gianfrancesco e Giambattista Gibellini, sotto i quali campeggia lo stemma della famiglia (un’aquila che sovrasta tre sfere). Gianfrancesco, notaio, ricoprì molte cariche cittadine importanti, tra le quali quelle di Commissario del Tribunale della Sanità durante la peste e poi Sindaco di Borgosesia. Giambattista fu un canonico di spicco vicino al vescovo novarese Odescalchi e sempre in prima linea per promuovere la costruzione della chiesa. Tutta la famiglia era composta in gran numero da avvocati, notai e canonici e appartenevano, quindi, al notabilato cittadino.

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Dettagli

Ma perchè sant’Anna può considerarsi un “Sacro Monte”?


Subito siamo portati a pensare a quell’assoluta meraviglia del Sacro Monte di Varallo e, forse, sfugge che quello borgosesiano, anche se piccolo e ben posteriore al suo modello, osserva le stesse “regole” che fanno di un luogo un Sacro Monte: è dotato di un percorso devozionale che si snoda lungo le pendici di un'altura, in un ambiente naturale (che era) isolato; ha delle architetture al cui interno si illustrano scene della vita della Vergine e di Cristo (altrove di Santi); ha una secolare e attestata tradizione di pellegrinaggi. Infatti, la nascita del Santuario si inquadra nel fenomeno delle Sacrae Peregrinationes, di quel “sacro che salvifica” di cui arde la spiritualità popolare e che si traduce nei pellegrinaggi e nella fioritura di sacri monti, concepiti come il perfetto locus amoenus nel quale immergersi per incontrare la fede.

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