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Il personaggio di Guardabosone: Cavalier Carlo Locca

Approfondimento

“Il museo di scienze è utilissimo per i bambini disabili: una volta un bambino cieco è venuto insieme con altri compagni, ho aperto le teche degli animali imbalsamati e gli ho fatto accarezzare il leone. Dopo poco che lo toccava si è messo a piangere. E io sono dovuto uscire per non fargli sentire che piangevo anch’io”.

Sono le prime parole pronunciate da un anziano signore non appena mi vede varcare la soglia del cancello che divide una bella stradina di Guardabosone dalla proprietà nella quale si trova il grande Museo di Scienze Naturali. Non faccio in tempo a balbettare nemmeno un “buongiorno” che vengo letteralmente catapultata in una realtà parallela, fuori dal mio tempo. Mi chiedo se questo signore sia un passante, forse il custode del Museo. Il suo sguardo fiero e le parole ferme mi inchiodano all’asfalto. “Sì ma la vuole sapere un’altra cosa? Nel museo ho un quaderno pieno pieno pieno di insulti e minacce scritti dagli animalisti!”. La sua mano stringe la mia, un sorriso appena accennato non nasconde una certa diffidenza. Ho conosciuto il Cavalier Carlo Locca, il creatore delle quattro collezioni museali dedicate agli antichi mestieri e alle scienze naturali di Guardabosone. Ad un tratto spalanca la porta della sua casa e mi invita ad entrare. Rimango appesa al filo di quelle prime parole, desiderosa di sentir proseguire il racconto, un po’ inebetita ma altrettanto incuriosita da una presentazione veramente insolita. Avevo davanti ai miei occhi il grande Cavalier Carlo Locca, del quale ho sempre tanto sentito parlare durante le mie ricerche, e non lo avevo nemmeno capito. Immagino che a prima vista anche altre persone potrebbero scambiarlo per un semplice signore al passeggio. Saranno quel suo piglio e quella sua dialettica semplice, forse, a nascondere la grandezza delle sue imprese, peraltro facilmente avvicinabili grazie ad una gioia e una voglia di raccontare veramente uniche. Incontro il signor “semplicemente Carlo”, come tiene a essere chiamato, in una giornata uggiosa. Qualche raro raggio di sole si riflette sui tetti umidi delle case e tutto il paese è avvolto da una coltre di silenzio surreale. Guardabosone sorge su un promontorio collinare in bilico tra la Valsesia e la Valsessera, in una zona strategicamente difendibile che ha significato la sopravvivenza della sua immagine originaria dal medioevo ai giorni nostri. Un’immagine inconfondibile caratterizzata da vicoli e stradine che s’insinuano tra cortili interni fortificati, pozzi, gallerie ed eleganti loggiati. Nel corso dei secoli la cittadella è stata ingentilita con belle produzioni artistiche, chiese, cappelle e, incredibilmente a ridosso del nostro tempo, un interessante orto botanico e ben cinque musei. Raccontare Guardabosone attraverso i suoi Musei è come entrare nel passato dalla porta principale. E se a condurre questa galoppata nel tempo è chi ne ha permesso la nascita, le emozioni e le scoperte sono assicurate. Ma iniziamo dal principio.

Signor Carlo, per gli amanti della cultura locale lei è un’istituzione. Com’è arrivato a creare ben quattro Musei? Da dove le è venuta l’idea? “Quello che mi ha spinto è la voglia di conservare la memoria della nostra vita, che discende dalla vita dei nostri antenati. È facile dimenticare le cose, io invece ho sempre desiderato creare un ambiente per avere un po’ di tutto sulla nostra storia. E così mi sono organizzato”. E tiene a precisare: “Ho impiegato tanti anni e ho fatto tutto da solo e con le mie uniche forze, anche economiche”. La domanda a questo punto sorge spontanea: tutto da solo? Ma come avrà fatto? Non resta che incalzarlo e lasciarlo raccontare. “La mia famiglia è proprio originaria di Guardabosone, il cognome è radicato qui sin dal Cinquecento ed è diffuso anche nei paesi vicini. Sin da bambino ero un appassionato collezionista, sono sempre stato innamorato della natura. Soprattutto mi sono sempre piaciuti gli insetti. Quando ero un bambino capitava spesso che, mentre gli altri miei coetanei andavano a giocare al pallone, io fossi impegnato a collezionare fossili oppure cose dismesse che nessuno usava più e che venivano buttate via come, ad esempio, gli strumenti del falegname o di qualche calzolaio deceduto”. Terminati gli studi alle scuole medie inizia a lavorare in un’industria locale, la Tessitura di Crevacuore, in quegli anni stanziata a Borgosesia.“Una volta grande ho iniziato a viaggiare. Credo di aver girato tutto il mondo! Certamente mentre viaggiavo cercavo insetti da osservare, anzi spesso partivo proprio con l’idea di andare a vedere questo o quell’insetto. Nel frattempo ho iniziato a comprare pezzi di esposizioni e a scrivere ricerche e articoli scientifici, alcuni sono stati pubblicati”. La passione verso gli insetti non lo abbandona mai e, ancora bambino, lo instrada verso una nuova avventura: quella dell’apicultura. In pochi anni arrivò a possedere qualcosa come un migliaio di apiari. “Da bambino vedevo lavorare diversi apicoltori nel mio paese ma non c’era modo di capire da loro come fare, non dicevano niente. Così la mia prima cassetta l’ho presa in un paese vicino: andai in estate con un gerlo e la caricai, guadagnandomi tantissimi morsi perché non avevo nessuna esperienza, avevo solo la mia volontà. Fu il prete del paese ad aiutarmi donandomi un libro di don Angeleri dove erano descritte le pratiche dell’apicultura; lo leggevo giorno e notte, dalla teoria passavo alla pratica e, piano piano, ho imparato”. Tra alterne vicende inizia a comprare terreni dove poter tenere le sue cassette e la moltitudine crescente di famiglie di api: “cercavo posti isolati in modo da non dar fastidio alla gente o agli altri apicoltori del paese”.


Nel frattempo Carlo sposa Tersilia Gens, una bella ragazza d’origini Walser di Riva Valdobbia, in alta Valsesia. “La conobbi grazie alle transumanze del bestiame. Lei era molto legata alla vita in alpeggio, io iniziai a seguirla soprattutto perché mi piaceva osservare la natura, specialmente gli insetti. Fu in quel periodo che cominciai a conoscere la Valsesia, in particolare la Valvogna. Durante il fidanzamento mi venne l’idea e dissi a Tersilia che se ci fossimo sposati avrei creato un museo in quel suo paese. Avevo circa 23-24 anni”. Detto, fatto. Erano gli anni ’70 e nella vicina Alagna si lavorava alacremente sulla realizzazione del primo Museo Walser. Carlo, invece, fece in modo di non trascurare il grande patrimonio etnografico Walser appartenente a Riva Valdobbia, e così “andai dai parenti di mia moglie per acquistare la casa Walser dove avrei realizzato il Museo etnografico Walser per conservarne la storia e quanti più oggetti possibili. La casa è del 1640 e si trova in frazione Rabernardo a 1.545 metri di altezza. L’esposizione si articola in undici sale e comprende un piccolo settore dedicato all’apicoltura dell’epoca: infatti il miele, al tempo dei Walser, si usava come medicinale per le malattie da raffreddamento. Ovviamente non fui aiutato né con soldi né con materiale. Un giorno il Sindaco mi convocò per farmi sapere che la gente si lamentava del fatto che chi veniva a vedere il museo calpestava l’erba dei prati e faceva rumore”. Questa prima esperienza museale fu, probabilmente, la miccia di un fuoco che continuerà ad ardere nei cinquant’anni successivi. Tra i terreni di sua proprietà a Guardabosone ecco che s’inizia a formare uno spazio utile alla realizzazione di un altro Museo. Il Museo di Scienze Naturali trova posto in una vecchia cascina scelta per la locazione più isolata rispetto al centro del paese “per fare in modo che anche gli animali vivi non dessero disturbo a nessuno”. Sì perché sin dai primi anni in cui si formava l’esposizione Carlo teneva nei giardini molti animali come lama, struzzi etc.. e “c’era un gran via vai di gente incuriosita che ogni giorno veniva a vederli, il passaggio era libero ed è sempre stato tutto gratuito”. Una certa parte di collezione fu acquistata nel bergamasco, mentre in un istituto scolastico dismesso furono recuperati materiali e le bacheche. In realtà il patrimonio museale non si limita all’area del museo ma continua nei terreni attigui, più di trenta mila metri con piante provenienti da diverse parti del mondo, per più di mille specie. Il risultato che possiamo osservare oggi è sorprendente: nelle diverse sale del Museo si alternano la sezione di paleontologia (con fossili dall’era Primaria alla Quaternaria), mineralogia, zoologia (centinaia di animali imbalsamati provenienti da tutto il mondo) e civiltà antiche. La sezione entomologica conta circa duemila scatole d’insetti per un totale di circa trecentomila insetti, centomila specie classificate – alcune delle quali portano il nome di Locca – per quella che è stata classificata come la quinta raccolta nel mondo. Il tutto coronato da una ricca biblioteca scientifica e storica. Osservando le collezioni, sfogliando le tantissime riviste che parlano dell’importanza scientifica di questo museo, chiedo ancora: Carlo come hai fatto a capire come fare per allestire questi spazi? “Ho girato il mondo! E cercavo di imparare e imitare quello che potevo negli spazi che avevo a disposizione”. Chiaro. Viaggiare apre la mente e il modo di osservare i luoghi nei quali siamo nati. Spesso restituisce maggiore passione verso aspetti della vita quotidiana che si sono sedimentati in lontani cassetti della memoria, quelli più in alto e più impolverati, dove non si va mai a cercare nulla credendo che ci sia sempre tempo per avere il tempo di apprezzarle.

Il Museo di Scienze Naturali trova posto in una vecchia cascina scelta per la locazione più isolata rispetto al centro del paese “per fare in modo che anche gli animali vivi non dessero disturbo a nessuno”. Sì perché sin dai primi anni in cui si formava l’esposizione Carlo teneva nei giardini molti animali come lama, struzzi etc.. e “c’era un gran via vai di gente incuriosita che ogni giorno veniva a vederli, il passaggio era libero ed è sempre stato tutto gratuito”. Una certa parte di collezione fu acquistata nel bergamasco, mentre in un istituto scolastico dismesso furono recuperati materiali e le bacheche. In realtà il patrimonio museale non si limita all’area del museo ma continua nei terreni attigui, più di trenta mila metri con piante provenienti da diverse parti del mondo, per più di mille specie. Il risultato che possiamo osservare oggi è sorprendente: nelle diverse sale del Museo si alternano la sezione di paleontologia (con fossili dall’era Primaria alla Quaternaria), mineralogia, zoologia (centinaia di animali imbalsamati provenienti da tutto il mondo) e civiltà antiche. La sezione entomologica conta circa duemila scatole d’insetti per un totale di circa trecentomila insetti, centomila specie classificate – alcune delle quali portano il nome di Locca – per quella che è stata classificata come la quinta raccolta nel mondo. Il tutto coronato da una ricca biblioteca scientifica e storica.
Osservando le collezioni, sfogliando le tantissime riviste che parlano dell’importanza scientifica di questo museo, chiedo ancora: Carlo come hai fatto a capire come fare per allestire questi spazi? “Ho girato il mondo! E cercavo di imparare e imitare quello che potevo negli spazi che avevo a disposizione”. Chiaro. Viaggiare apre la mente e il modo di osservare i luoghi nei quali siamo nati. Spesso restituisce maggiore passione verso aspetti della vita quotidiana che si sono sedimentati in lontani cassetti della memoria, quelli più in alto e più impolverati, dove non si va mai a cercare nulla credendo che ci sia sempre tempo per avere il tempo di apprezzarle.
Poco distante, in un bel punto arroccato del paese, sta la “Casa dei mestieri” articolata sui tre piani di un edificio storico risalente al 1600. Una scala panoramica conduce il visitatore su bellissimi ballatoi in legno e all’interno di diversi ambienti, in ognuno dei quali sono stati allestiti gli oggetti della vita del fabbro, del calzolaio, del falegname, del carrettiere, del tessitore. Come non rimanere incantati dal bilanciere utilizzato per coniare monete in bronzo, dalle mole o dai collari anti-lupo; dalla scardatrice, le tomaie e le forme in legno per cucire gli “scapini” o “scufun”; dal tornio a pedali del 1740?
E ancora, nel Museo degli antichi mestieri ritroviamo oggetti di vita quotidiana con l’aggiunta di strumenti più grandi, rivelatori dei metodi produttivi antichi. Ad esempio due telai per la filatura della canapa, largamente praticata fino agli anni ’60 del secolo scorso, una macina in pietra, un torchio del ‘700 e altri strumenti per ottenere l’olio dalle noci, per finire con una rara macchina monda-castagne per separare la castagna dalla buccia, senza tralasciare gli strumenti in legno per la lavorazione del latte, del burro e del formaggio. Il rustico caseggiato nel quale trova posto questo Museo riporta alla nostra memoria l’intero sistema economico non solo di Guardabosone bensì di entrambe le valli sulle quali si erge a mezzo.
“Verso fine settembre i malgari si disponevano a scendere nelle abitazioni invernali dove giungevano per i lavori autunnali che consistevano in poca vendemmia, nella raccolta delle castagne e delle noci utili al mantenimento della famiglia o al baratto con i prodotti della pianura; (…) durante l’inverno il focolare era il centro della vita familiare. Il primo che “s’ausava” (si alzava) era il capofamiglia, la levataccia iniziava alle quattro del mattino quando iniziava il ciclo di produzione dei latticini e la pulizia della stalla”.
Chiuse in mezzo tra un cortile interno e un paio di stradine strette, troviamo alcune esposizioni ambientate in due cantine. Nella prima, uno splendido ambiente voltato a botte caratterizzato dall’antica muratura “a lisca di pesce” o “spiga di grano” sono conservati oggetti come le “olle”, gli orci in terracotta per riporre i salumi sotto grasso e sale; i “brunzin”, i paioli per la polenta, stoviglie da cucina in terracotta. Nella cantina attigua ecco tutto l’occorrente per il vino: dalle brente ai tini per la pigiatura, dal torchio alle botti. Questi locali erano tanto importanti in età medievale quanto belli, oggi, da osservare: erano dei veri e propri magazzini e nelle cantine si ammassavano le provviste necessarie per resistere al lungo inverno e a eventuali attacchi nemici.

Il tono del racconto di Carlo diventa più severo. “Vorrei ricordare che non ho avuto nessun aiuto o collaborazione da parte di nessuno. Nessun altro comune oltre il mio ha voluto esporre le mie collezioni. Ma da Milano, Genova o Brescia da molti anni vengono tanti studiosi e intrattengo fitte corrispondenze con grandi Musei che mi spediscono le proprie riviste. Vorrei che questi Musei fossero aperti a tutti, vorrei che la gente portasse i bambini, le scolaresche; vorrei un sistema unitario per valorizzare il territorio, proprio come accade a Parigi, dove i grandi musei indicano la presenza di quelli più piccoli ai turisti”.
Durante il suo racconto nomina spesso sua moglie Tersilla. Credo di poter scorgere in lui una chiara luce negli occhi ogni volta che la nomina. “Mi è sempre stata vicina in tutte le avventure della nostra vita senza mai un lamento. Eppure, non le piacevano le cose che piacevano a me. Qualche volta mi ha addirittura salvato la vita, come quella volta in cui mi calò una corda in una grotta dove ero caduto per osservare alcuni insetti”.
Vicina a noi è venuta a sedersi sua figlia Roberta, orgogliosissima del suo papà. Oggi anche lei, come altri membri della famiglia, cerca di dare una mano nella valorizzazione di questo ingente patrimonio. In lei ricerco la fiducia nelle capacità delle giovani generazioni; eppure comprendo benissimo come la paura più grande di Carlo sia che dopo la sua morte le collezioni vadano in qualche modo disperse e con esse tutta la fatica, le energie e le speranze profuse.
Raccogliendo questa ombrosa riflessione, lo incalzo ancora. Carlo, alla luce del suo impegno e dell’amore che ha speso per il suo paese come si definirebbe? “Un tulu!” (uno sciocco) – ed esplode un tono ilare in questa risposta decisa e veloce “Si, si, ha capito bene! Sono un tulu! E comunque io ho solo messo insieme i tasselli di ciò che la natura, o i popoli antichi, ci hanno dato”.
Credo che una risposta del genere da parte di un uomo insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, capace divulgatore scientifico, che non ha mai chiesto niente se non il piacere di vedere la gente affluire alle sue esposizioni abbia certamente molto da insegnare.
In meno di un’ora ho potuto comprendere tutta la sua voglia di trasmettere il valore di saper guardare alle cose con semplice curiosità, con la mente aperta e gli occhi innamorati di chi ricorda un passato non cosi lontano, con la voglia di non perdere tradizioni che appartengono a tutto il genere umano. Di come dietro ad un Museo ci sia veramente la vita.
Dietro i Musei di Guardabosone c’è un unico, grande uomo, c’è il genio di un animo sensibile nascosto tra le pieghe di un lavoratore forte e risoluto. C’è l’idea che ogni oggetto esposto nei Musei sappia parlare con chi lo guarda con la stessa forza e intensità delle mani che lo hanno usato, del sudore che è calato dalla fronte del contadino, delle lacrime della partoriente, dei sospiri di un innamorato alla finestra.

Ora che devo uscire da quella casa per tornare a gironzolare tra le vie di Guardabosone, vorrei restare ancora. Vorrei ascoltare ancora. Ora che conosco la sua storia comprendo il valore di quella frase con la quale mi ha accolto senza nemmeno sapere chi fossi e cosa stessi facendo vicino a casa sua: mi torna in mente l’immagine di lui, anziano e commosso, con le lacrime agli occhi, mentre aiuta un bambino disabile a toccare un leone.
Non è forse quello, il senso della vita? Ora che anche i miei occhi sono umidi, sono pronta ad andare.

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