Le eccellenze valsesiane
I prodotti dell’artigianato valsesiano destano sempre grande curiosità e apprezzamento tra i visitatori. L’artigianato locale ha dei caratteri artistici marcati: i prodotti più celebri sono ancora realizzati secondo antiche e preziose tecniche di lavorazione che si sono tramandate di generazione in generazione con sapienza e amore.
Molti manufatti artigianali possono essere osservati in graziose botteghe.
Eccone alcuni esempi.
L’artigianato tessile legato alla lavorazione della canapa, della lana, della seta, del lino e, in ultimo, del cotone, è sempre stato molto sviluppato sul territorio.
Il lino ha avuto una produzione molto limitata a causa di una lavorazione difficoltosa ma le produzioni di seta e lana erano fiorenti nelle filande della porzione medio-bassa della valle (le più note a Borgosesia, Quarona e Varallo).
È però la lavorazione della canapa ad aver rappresentato per lungo tempo un elemento imprescindibile nell’economia valsesiana. La sua coltivazione oggi è scomparsa ma si conoscono le fasi della lunga lavorazione. Seminata in aprile e maggio, la crescita dipendeva dal clima umido e dalla ventilazione. In agosto si raccoglieva il fusto per la fibra tessile e in settembre veniva raccolto il fusto pistillifero per le fibre più grossolane. La lavorazione iniziava con l’essiccatura e la sfogliatura dei fusti mediante battitura. I fusti venivano posti a macerare immersi in acqua in apposite vasche e, dopo 2-3 settimane, erano lavati e posti ad asciugare nel loggiato in posizione verticale. Dopo la stigliatura la fibra grezza era trattata al frantoio e sottoposta a cardatura su particolari pettini, poi destinata agli usi più diversi in base alla finezza delle fibre (cordami, Scapìn, tele ecc..). L’ultima fase era la filatura, eseguita con la conocchia e il fuso a braccio o con il filatoio, una procedura simile a quella della lana. Il filo prodotto era avvolto in matasse e talora sbiancato a caldo sottoponendolo a bucato con la cenere. I frutti della canapa, invece, erano utilizzati come granaglia per il pollame o per la preparazione di olio da illuminazione.
Uno dei prodotti più amati (e acquistati) sono gli Scapin, comode calzature che, secondo la tradizione, iniziarono a comparire in valle al seguito dei Walser.
Ideati per unire la comodità al calore, gli Scapin si realizzavano riciclando pezzi di stoffa da vecchi indumenti ormai dimessi (soprattutto di lana) “intralati” con una suola di canapa, cosa che garantiva una migliore resistenza e un maggior isolamento. L’antica usanza prevedeva che il calzolaio fosse ospite nelle case delle famiglie per il tempo necessario a produrre le calzature di tutta la famiglia.
In passato gli Scapin erano proprio le scarpe quotidiane; oggi, invece, sono percepite come pantofole domestiche e vengono realizzate con materiali nuovi (panno, velluto, cachemire e senza canapa per la suola) anche se le tecniche di produzione artigiana sono rimaste le stesse: una prevede l’utilizzo di forme di legno con cucitura esterna, l’altra senza l’uso di forme e con cucitura interna.
Un’arte preziosa, fine e tutta femminile come il ricamo ha consacrato alla storia delle tradizioni valsesiane un manufatto celebre ed apprezzato, il Puncetto.
Unico e inimitabile, il nome di questo particolare ricamo significa “piccolo punto”: la trina si compone di un fitto insieme di punti, ovvero “nodi”, realizzati con l’ago su ponti di filo, fino a creare forme geometriche complete, regolari, fantasiose.
Tradizione vuole che la trina nasca dalla lavorazione di filo bianco ma, in Valmastallone, se ne realizzò una varietà in filo colorato. La tecnica è oggi applicata anche per la creazione di gioielli e oggettistica di vario genere e al Puncett è stato anche dedicato un Museo a Fobello. Sulla sua origine, molto antica, non si hanno certezze.
Per molti secoli fu prodotto per uso strettamente personale e utilizzato per decorare la zona del collo, delle spalle e delle maniche della camicia dell’abito femminile ma, nel tempo, se ne estese l’applicazione alla biancheria per la casa. Conobbe grande successo al tempo della Regina Margherita di Savoia che lo introdusse nell’ambiente di corte.
La Valsesia conserva un ricco repertorio di abiti femminili, oggi considerati tradizionali e indossati soprattutto in occasione di particolari ricorrenze o festività. In passato le fogge dell’abito, nella variante della “festa” e non della quotidianità, costituivano un segno di distinzione sociale e di appartenenza familiare.
Ogni paese, a sua volta, si contraddistingue dagli altri nell’uso e nei colori delle parti dell’abito (come il grembiule, i colori o la posizione dei nastri, gli orli delle gonne etc..): i più noti sono quelli di Fobello, Carcoforo, Alagna, Scopello e Rimella. Sinteticamente si può dire che, nei tratti comuni, l’abito prevede una lunga gonna pieghettata di colore scuro (marrone, nero, blu scuro), la camicia bianca ornata con Puncetto (con colletto alto e stretto, a scollo quadrato o tondo), un corpetto ricamato, un grembiule, calzerotti di lana e Scapin ai piedi (ma, alle feste, si portavano scarpe eleganti e calze fini), il tutto completato dalla pettinatura tradizionale, un particolare modo di raccogliere i capelli che venivano adornati di spilloni e nastri.
La lavorazione del legno rappresenta una delle principali attività economiche ed artistiche della Valsesia.
Molta produzione si svolgeva durante le lunghe serate invernali: mentre le donne si dedicavano al ricamo e alla tessitura, gli uomini si radunavano nelle stalle per fabbricare utensili, oggetti di vita quotidiana (uso domestico o lavorazione del latte e del burro), di botti (la cui produzione valsesiana era una vera e propria arte che aveva reso famosi i valligiani anche all’estero), gerle e cestini (notevolissimi quelli che si realizzavano a Vocca o Cravagliana e che avevano una struttura “a riccioli”), arredi sacri per le chiese delle comunità, e così via.
Uno dei mestieri più praticati in Valsesia era proprio quello del falegname che si svolgeva in botteghe attrezzate munite di bancone centrale con morse, tornio e fresatrice. Erano essenziali anche le segherìe (le più antiche sono a Mollia e ad Alagna) dove si portavano i tronchi d’albero per ricavare assi da costruzione. Gli strumenti più complessi della falegnameria e della segheria erano mossi con l’energia idraulica incanalata su ruote a pale e, da queste, tramessa nei punti necessari grazie a ingranaggi e pulegge collegate da cinghie. La produzione casalinga, invece, si svolgeva con gli attrezzi minori. Su questa linea si colloca l’arte scultorea degli arredi sacri, molto pregiata. Nel tempo, da una primitiva corrente artistica di ascendenza gotica (le cui testimonianze si trovano nella Pinacoteca di Varallo) si passa attraverso la fine arte Walser (gli “Altaroli”) per raggiungere le sensazionali sculture del Sacro Monte di Varallo, vere e proprie riproduzioni umane a grandezza naturale, testimonianza dell’evoluzione del linguaggio espressivo di cui le maestranze valsesiane erano capaci.
La Val Sermenza ha dato i natali ad uno dei manufatti valsesiani più conosciuti nel mondo: il Marmo Artificiale, una speciale tecnica che permette di riprodurre perfettamente l’estetica del marmo naturale. Amatissimo all’estero, molti paesi europei ed extraeuropei ne conservano esempi pregevoli (come Germania, Romania, Norvegia, Svezia, Ungheria, Russia, Francia, Marocco).
Culla di questa particolare tecnica di produzione è Rima, il “paese più alto” della Valsesia, dove ancora si insegna e si tramanda la tecnica attraverso appositi corsi annuali, sempre molto partecipati. La tecnica prevede l’utilizzo di un composto ottenuto mescolando insieme scagliola e pigmenti colorati; esso viene steso sulla superficie da ricoprire per poi essere levigato e lucidato grazie all’impiego di sette pietre di durezza diversa e crescente.
La lavorazione necessita di particolare cura e attenzione per evitare la formazione di grumi, crepe e l’infiltrazione di impurità che potrebbero compromettere il risultato finale. La fortuna del Marmo Artificiale esplode nel corso del XIX secolo: alcune famiglie rimesi (es. De Toma, Axerio, Della Vedova) fecero la propria fortuna e, per estensione, quella di tutto il paese natìo, grazie alla realizzazione di opere elegantissime a costi di produzione bassissimi.
La storica fonderia di campane della famiglia Mazzola venne edificata a Valduggia verso la metà del 1400. Valduggia è un borgo che si è sviluppato in una porzione di territorio particolarmente favorevole alle attività artigiane legate alle concerie, alle cartiere, ai calcifici, alla alvorazione dell’ottone (si ricordino anche le aziende metallurgiche sorte proprio in quest’area) che sfruttavano le acque e l’energia del torrente Strona.
La fonderia realizzava campane in bronzo lavorate con l’aggiunta di piccole percentuali d’oro e argento per riuscire ad ottenere tonalità differenti di suoni. Si può dire che nessun oratorio o chiesa della Valsesia fosse sprovvista di campane che non fossero realizzate in questa fonderia, che ha cessato l’attività solo in anni recenti. La campana più antica che si conservi risale al 1475.
Le lavorazioni del vetro e del ferro hanno costituito, nel tempo, delle solide realtà commerciali e decorative.
Con il vetro si producono ancora oggetti artistici e splendide vetrate, come quelle piombate che sin dalla fine del ‘500 abbelliscono le grate del Sacro Monte di Varallo.
Con il ferro battuto venivano realizzati manufatti destinati a diversi utilizzi come, ad esempio, le tradizionali lampade da illuminazione (“lüm”) dalla caratteristica forma allungata o un particolare strumento musicale, la Ribebba, simile allo “scaccia pensieri” siciliano usato, almeno inizialmente, per il richiamo degli armenti al pascolo.
Anche la pietra ollare ha costituito una voce commerciale notevole per la produzione di vasellame e stoviglie: questo materiale veniva estratto in cave ormai dismesse come quelle scavane nella zona di Stofful, sopra Alagna.